Cambiano alcune regole per gli impieghi a tempo determinato


Sul periodo di prova, le regole italiane sono più rigide di quelle dell’Unione europea. Crescono anche i vincoli sugli impieghi a tempo determinato in cui la prova non solo deve essere proporzionata alla durata del contratto, ma ora, per legge, anche alle mansioni da svolgere in relazione alla natura per l’impiego.

Le novità sono introdotte dall’art. 7 dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri il 31 marzo, per recepire la direttiva Ue 2019/1152 e inviato alle Camere per acquisire il previsto parere.

Proprio la direttiva comunitaria nell’articolo 8 fissa sul tema tre principi:

  • Gli Stati membri provvedono affinché, qualora un rapporto di lavoro sia soggetto a un periodo di prova quale definito dal diritto nazionale o dalle prassi nazionali, tale periodo non sia superiore a sei mesi.
  • Nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri provvedono affinché la durata di tale periodo di prova sia proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto per la stessa funzione e gli stessi compiti, il rapporto di lavoro non è soggetto a un nuovo periodo di prova.
  • Gli Stati membri possono, in via eccezionale, prevedere periodi di prova di durata superiore se questi sono giustificati dalla natura dell’impiego o sono nell’interesse del lavoratore. Qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell’assenza.

Attualmente il nostro ordinamento prevede che il patto di prova non sia superiore a sei mesi (in linea con la direttiva Ue) e diversi contratti collettivi fissano una durata spesso inferiore in relazione al livello di inquadramento del lavoratore.

Le parti possono anche superare tale limite contrattuale, e comunque sempre nel tetto dei sei mesi, a condizione che l’estensione sia giustificata da una particolare complessità delle mansioni con onere della prova a carico del datore di lavoro (Cassazione 9798/2020).

Al contrario, la direttiva 1152 stabilisce che la prova può essere anche di durata superiore a sei mesi, se questo è giustificato dalla natura dell’impiego «o» nell’interesse del lavoratore.

Leggendo l’articolo 7, comma 1, dello schema di decreto legislativo, invece, il legislatore italiano conferma la durata massima di sei mesi e fa salve, esclusivamente, le ipotesi di durata inferiore a tale periodo previste dai contratti collettivi.

Dunque, in Italia, in nessun caso la prova potrà essere superiore a sei mesi.

Con riferimento all’estensione proporzionale del periodo di prova, lo schema di decreto individua in modo puntuale le assenze che ne consentono la proroga. In particolare: malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori.

Nessuna novità circa il divieto del periodo di prova nel caso di rinnovo di un contratto per la stessa funzione e gli stessi compiti (già ampiamente stabilito dalla giurisprudenza), indipendentemente dal fatto che il contratto sia a termine o a tempo indeterminato.

Infine, è critica la previsione del periodo di prova nei contratti a termine. Il nostro ordinamento, sprovvisto di legge in tal senso, è stato compensato dalla giurisprudenza che ha affermato da tempo il principio proporzionalità del periodo di prova in funzione della durata del contratto. Non sono molti i contratti collettivi che prevedono una disciplina in tal senso.

Con il nuovo decreto, invece, si stabilisce un principio di proporzionalità in funzione non solo della durata, ma anche delle «mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego». Appare evidente che, senza l’aiuto della contrattazione collettiva, ogni periodo di prova è a rischio.

Fonte: Redazione TFDC

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